È possibile creare profitto perseguendo delle policy sostenibili? Certamente. La Green Economy (Economia Verde) non è solo un trend legato al marketing; parliamo di un impegno concreto e attivo, che le aziende stanno via via inserendo nella loro agenda di pari passo con diversi governi nazionali.
Se già all’inizio del secolo scorso si mettevano in discussione sistemi di produzione e di approvvigionamento energetico, è solo negli ultimi 15 anni che si è seriamente presa in considerazione l’idea di far qualcosa di pratico a livello aziendale.
Decretata una terza rivoluzione industriale, preso atto della situazione critica in cui versa il pianeta, Paesi e società hanno scelto di adeguare mezzi di produzione, catene di rifornimento e policy di vendita.
Questo ha portato molti famosi brand, dei più disparati settori, a farsi ambassador attivi degli ideali di Green Economy che si vogliono difendere.
I dettami della Green Economy
Produrre, creare servizi e profitti in un’ottica green non si riduce al riciclare la carta; certamente iniziare da un coinvolgimento delle politiche sugli sprechi è una buona mossa, ma i meccanismi da implementare sono di più, e sicuramente più complessi.
In prima istanza vediamo sicuramente l’impegno rivolto alla salvaguardia ambientale, e tutte le policy relative; queste vanno dall’osservare una politica quanto più possibile paper-free, all’utilizzo di arredi e strumentazioni derivanti da economie circolari, all’applicazione di pratiche tra i dipendenti quali car-pooling e utilizzo di mezzi di trasporto alternativi.
Se poi l’azienda stessa si appoggia a fonti di energia rinnovabili, riuscendo ad aumentare l’efficienza nonostante la riduzione di emissioni e inquinamento, i risultati saranno ancora più apprezzabili. Tutto questo in osservanza dei punti espressi dall’agenda delle Nazioni Unite, a cui l’UE ha aderito, per la riduzione delle emissioni entro il 2030.
Ma non si parla solo di responsabilità ambientale; un fattore consistente del processo sostenibile riguarda anche quella sociale.
Un ambiente di lavoro inclusivo, in cui viene incentivata l’assunzione in un’ottica integrata che tiene conto di tutti i dipendenti e delle loro necessità, crea le condizioni ottimali per loro; benessere che ha un riflesso chiaramente positivo anche nella produttività e nel rapporto con i clienti.
L’insieme di queste pratiche ha aumentato nel tempo la consapevolezza di impiegati, clienti e manager nei confronti delle problematiche ambientali e sociali, ma anche dei risvolti positivi dell’applicazione delle stesse.
La crescita del trend
Va da sé che ovviamente coscienza chiama coscienza.
Sia grazie all’influencing marketing, sia grazie alle opere pubbliche (che siano investimenti od operazioni) delle diverse aziende (ma anche dei governi), sempre più realtà aziendali, più o meno grandi, acquisiscono consapevolezza, includendo i valori della green economy nella mission aziendale.
Tutto questo genera un meccanismo circolare, in quanto le aziende si influenzano vicendevolmente sia per rimanere nel trend, sia per arrivare a soddisfare le aspettative degli utenti e dei clienti; l’operazione di personificazione dell’ideale avviene tramite investimenti (sia privati che pubblici), green marketing e, soprattutto, avvalendosi dell’appoggio di diversi influencer, specialmente esterni all’azienda stessa e più in contatto con le generazioni attuali e i loro mezzi di comunicazione (social, ma anche offline).
Il cambiamento più grande comunque, che porta sia a una completa transizione che a un nuovo paradigma di costituzione, è una completa policy reform; un meccanismo difficile per tanti, ma sempre più assistito nei processi e nell’implementazione.
Dalla Brand Purpose al Brand Activism
Parliamo ora di marketing, e quindi di come le aziende fanno sentire la propria voce.
Passare dalla volontà all’azione è il primo cambiamento che i clienti oggi richiedono all’azienda; questo perché sempre di più l’attenzione del consumatore si sta muovendo dal “prodotto in sé” al sistema di valori che non solo il prodotto, ma l’intero marchio portano avanti. A livello di operazioni e operatività marketing questo ha segnato un cambiamento considerevole.
Come il guru e autorità del marketing Philip Kotler ci ricorda, le persone sono razionali solo al 5% nei processi decisionali; questo implica che una larga fetta di processi mentali sono governati dalla sfera emozionale.
Questo spinge quindi le aziende a comunicare in maniera potente ed efficace il valore del brand, che consiste in un sunto dei risultati che un eventuale acquisto può portare all’utente in termini immateriali; miglioramento della qualità della vita, del benessere, condivisione di responsabilità e coinvolgimento sociale.
Il vecchio marketing che esalta la “qualità” del prodotto e i suoi benefici deve quindi essere rivisto e rinnovato; quello che si vende oggi è la storia del prodotto e di chi lo vende, e il sistema di valori che il brand incarna. In quest’ottica, si raggiunge una sorta di “paradosso dell’articolo”: l’oggetto desiderato in sé passa quasi in terza posizione nella scala d’interesse dell’utente che lo cercava, trasferendosi in una sorta di “zona grigia” in attesa del match perfetto tra cliente e azienda.
Ma come si espleta nella pratica il BA?
Sono diverse le azioni che un’azienda può decidere d’intraprendere; per riprendere la differenziazione teorizzata sempre da Kotler, possiamo dividerle in sei settori di riferimento:
- sociale
- aziendale
- politico
- ambientale
- economico
- giuridico
In ognuno di questi ambiti, l’azienda non solo si fa portavoce di determinati valori, ma scende in campo in prima linea con rappresentanti fisici, investimenti, iniziative mirate.
Nel campo ambientale, ad esempio, alcune aziende (tra cui ProduceShop), hanno deciso d’investire su Treedom; si tratta di un servizio che, a fronte di un contributo economico, pianta alberi da frutto in alcuni paesi economicamente svantaggiati, dando la possibilità di lavorare e di vivere del ricavato anche alle famiglie locali che se ne prendono cura.
In campo sociale, tante iniziative legate ai diritti umani, specie nel campo delle discriminazioni; questo di solito si lega all’attivismo aziendale, andando a modificare alcune practice, se non l’intera governance, per adeguarsi alla nuova mission.
In conclusione
Farsi portavoce di un’idea può spesso essere un rischio per un’azienda; se il trend in esame poi è ancora caldo, il rischio d’impelagarsi in un hype negativo potrebbe essere dietro l’angolo.
Ma dato che i clienti oggi sempre più chiedono una dimostrazione di valore dai brand, chi veramente sa identificarsi in un’ideale positivo non avrà difficoltà ad applicare le politiche corrette per un buon Brand Activism; in termini d’investimento, i risultati nel tempo sono positivi e palesi.
Fonti:
- PR Aziendali
- Dipartimento HR ProduceShop
- Dipartimento Marketing ProduceShop (https://mbkfincom.com)
- Repubblica
- UnEp.com
- Digital 4Biz
- IG.com
- ActivistBrands