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Job Hopping e nuove generazioni: come evitare cambi troppo frequenti in azienda6 min read

Sempre più comune anche qua, dopo aver preso piede oltreoceano, il fenomeno del Job Hopping sta diventando oggi, per tanti giovani lavoratori, sinonimo di “niente compromessi”. Eppure, nonostante la diffusione, analisti e ricerche concordano sul rischio di risvolti non sempre positivi, lato lavoratore e lato recruiter. Nell’articolo, un’analisi del fenomeno e delle dinamiche di MBK Fincom.

L’immagine del “saltellare” da un posto di lavoro all’altro rende abbastanza bene l’idea di questo fenomeno; il job hopping non è semplicemente uno spizzicare stipendio e formazione, quanto un riflesso di complessi meccanismi sociali ed economici che, negli ultimi anni, hanno plasmato un nuovo paradigma lavorativo nei lavoratori della Generazione Y (i cosiddetti Millennials).

Per quanto spesso le cause possano sembrare giuste e nobili, non sempre lo sono le conseguenze; se il disinteresse per il “posto fisso infatti sta calando lato impiegato, dall’altro i recruiter richiedono comunque stabilità e affidabilità. Uno storytelling ben architettato lato postulante, purtroppo, non basta; le aziende investono, e questo investimento deve ritornare, anche nel medio-lungo termine. Leggiamo qualche info sul fenomeno, e il consiglio di MBK Fincom per evitare di perder risorse utili.

Una panoramica sul fenomeno

Se negli USA la pratica va avanti da qualche anno, il modo di fare imprenditoria in Europa ha concesso solo recentemente ai job jumpers di ritagliarsi una fetta del mercato del lavoro tanto significativa da poterne parlare.

Acuitosi durante la pandemia, vuoi per il cambio di prospettive, vuoi per necessità, il fenomeno del job hopping ha svelato tutto un nuovo ventaglio di pretese da parte di un’intera generazione di lavoratori; profili diversi, diverse ambizioni, priorità completamente rivoluzionate.

La generazione dei Millennials (1980-1996), che poi rappresenta la quasi totalità del core della forza lavoro e produttiva attuale, è la vera rappresentante del trend. Si è notato che quasi il 90% dei lavoratori di questa fascia generazionale non va oltre i 5 anni nello stesso posto di lavoro; la percentuale scende al 37% se restringiamo il campo di permanenza a due anni, anche se è comunque in aumento. Oltre il 40% (43, nello specifico) dei GenY lo vede come un fatto positivo (vedremo che i recruiter la pensano un po’ diversamente). La percentuale di job hoppers attivi, pari al 64% negli USA, è di poco inferiore in Europa.

Se la ricerca di benessere e work-life balance, lo spirito imprenditoriale, il nomadismo digitale e la voglia di mobilità sono il motore di questo trend, è vero che gli alti tassi di disoccupazione, la mancanza di prospettive nel cambiamento e i tassi di turnover ballerini rappresentano ancora un ostacolo.

Job Hoppers: un profilo medio

Non bisogna immaginare questa categoria di lavoratori come degli impazienti cronici, o dei semi-professionisti mai formati; si tratta, invece, di figure professionali composite e molto interessanti, che sono purtroppo alla ricerca di un miglior livello di retribuzione, flessibilità o di un cambio di punti di vista.

Tra le caratteristiche che si sono riscontrate più spesso possiamo elencare:

  • adattabilità
  • velocità di apprendimento
  • creatività
  • flessibilità
  • alte doti organizzative
  • buona capacità di comunicazione
  • goal-focused
  • expertise poliedrica
  • buon know-how
Job Hopping come ricerca di una stabilità

Gli svantaggi del Job Hopping

È naturale che un trend simile, oltre all’approvazione di tanti, riscuota anche una certa dose di sfiducia.

Se molti lavoratori infatti da un lato prediligono questo genere di approccio, di diverso avviso risultano essere le aziende. La frequenza troppo ravvicinata di posizioni lavorative, e relativi “salti”, per una compagnia potrebbe rappresentare uno scarso livello di fedeltà aziendale; inoltre, la stessa credibilità del candidato e delle sue capacità e competenze (che invece potrebbero essere ottime), possono essere messe in dubbio da un eventuale recruiter. In caso di riduzione del personale, i primi da sacrificare rischiano di essere proprio quelli visti come “scostanti” a livello di percorso professionale; inoltre, non lavorando sul lungo termine, risulta complicato visualizzare i risultati e la crescita professionale del candidato.

Lato azienda, lo svantaggio non è comunque da poco.
Rischiare di farsi sfuggire una risorsa capace, su cui si è deciso di investire, è una perdita difficilmente calcolabile, quasi quanto il dover nuovamente cercare e formare detta risorsa. Inoltre, e questo si è riscontrato di più post-pandemia, trovare nuovi candidati che non rientrino nella categoria dei job jumpers sta diventando sempre più complesso; più di un terzo dei nuovi lavoratori della Generazione Z, ad esempio, vi rientra, nell’ottica di inquadrare il proprio benessere in una posizione più alta del tornaconto economico. Inoltre, dato che si tratta di giovani più incentrati sul sociale che sul personale, l’atteggiamento critico nei confronti di una compagnia, anche a scapito di non potercisi “affezionare” se non in linea con i loro valori, acuisce il problema.

Come un’azienda può evitare la perdita di talenti

Può una compagnia evitare di perdere i propri talent lungo il percorso?
Assolutamente si, lavorando sull’employee engagement.

Secondo quanto abbiamo applicato e misurato ad esempio in MBK Fincom, ci sono alcune best practice che possono garantire un buon livello di loyalty del proprio personale, facendo si che tutte le loro skill e la loro crescita siano messe, volontariamente, a uso del benessere della compagnia, che viene inquadrato come un benessere di tutti.

Alcune pratiche che possiamo consigliare sono:

  1. migliorare l’onboarding: un nuovo collaboratore non deve sentirsi un numero in una tabella, ma piuttosto una parte integrante, utile e importante di un meccanismo che non può fare a meno di loro. Lavorate sull’accoglienza, sulla formazione, sul creare un ambiente ricettivo di qualità;
  2. puntare sul team building: gli ecosistemi compositi creano dinamismo, il che spinge un collaboratore a sentirsi attivamente parte un progetto più alto. Se riuscite a coltivare intorno a loro un ambiente interattivo e di interdipendenza, state sicuri che difficilmente i vostri talenti vorranno lasciare questa dinamica;
  3. gestire lo stress: il lavoro genera stress – è un dato di fatto. Ci sono però mezzi e modalità per limitarlo, se non addirittura per prevenirne lo sviluppo. Ascoltate i vostri collaboratori, lavorando sulla flessibilità (smart working, orari flessibili), sulla partecipazione, sulla gamification, sulle ricompense meritate, su un work-life balance adeguato, per evitare anche il singolo episodio di burnout;
  4. disegnare un piano carriera efficace: gli impegni si premiano, i risultati vanno riconosciuti, e un collaboratore che vede opportunità concrete di crescita non vorrà farsele sfuggire. Cercare di dare un prospetto vero dei traguardi, con momenti di crescita ben fissi nel percorso e nel tempo.

In conclusione

Per quanto la prospettiva di un ricambio frequente possa sembrare appetibile (ci rivolgiamo qui ai lavoratori), provate a puntare sulla crescita razionale.

Agli employer, invece, consigliamo di lavorare sul rapporto con le proprie risorse, per non incorrere in una perdita dei talenti e, di conseguenza, in fastidiose impasse come nuova ricerca, nuova formazione, nuova spesa.

Fonti:
  • PR aziendali
  • Dipartimento HR ProdueShop (https://mbkfincom.com/)
  • Randstad
  • Indeed
  • Factorial
  • Time Vision
  • IlSole24ore
  • Huffington Post

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